REDIPUGLIE
(Nel II° anniversario della consacrazione)
Absorpta est mors in victoria.
S. Paolo ai Cor. XV, 54
E’ questo il colle. L’ascendiam devoti
curva la fronte e riverente il core.
Qui conosciuti eroi, martiri ignoti
La semenza gentil del patrio amore
nutron sotterra, e il culto dei viventi
ne svolge il germe e ne sprigiona il fiore.
Non grige tombe, ma fari lucenti
che irradieranno il lume della fede
nel ciel d’Italia a le future genti;
non sepolcreto, ma superba sede
dove si prostrerà come in un tempio
chi d’eletta virtù vuol farsi erede.
Alto qui parla il rinnovato esempio
d’antichi padri; qui tragga le sorti
chi mai d’Italia mediti lo scempio.
Manderanno in quel dì l’urne dei forti
vampe guizzanti d’ira e di vendetta
e nuovamente pugneranno i morti.
Non osi d’appressare a questa vetta
chiunque in petto la viltà nasconde
com’uom che a nocer luogo e tempo aspetta.
Come dal sole tenebre profonde,
rotti andranno a chi nega e patria e Dio
i propositi rei le voglie immonde.
Chi vuole appresso a me muovere in pio
pellegrinaggio per il colle sacro?
sia memore il pensier; guida son io.
Tutti guarda dall’alto il simulacro
di Lui che il corpo su la croce offerse
e del sangue divin fece lavacro.
Tutti volgono a Lui per vie diverse
i martiri del bene; è suo seguace
chi generoso per altrui sofferse:
ed Ei l’accoglie nell’eterna pace.
su la fossa ove alfin prendi riposo
siede con l’ali aperte aquila audace,
generale Chinotto. Il valoroso
animo effigia, pertinace aita
al corpo da crudel morbo corroso,
quando la gente tua facevi ardita
nelle trincee d’Isonzo e Monfalcone
e sentivi da te fuggir la vita.
E tu per ogni rupe ogni burrone,
mentre cupa incombeva la minaccia
sul Carso lacerato dal cannone,
fiero avanzasti del nemico in faccia,
generale Paolini, e diffondesti
da quattro piaghe una vermiglia traccia.
Giù digradando girano da questi
vertici i molti cerchi ond’è recinto
ogni lembo di terra che calpesti.
Sottil ferro talora in rosso tinto,
ruggine e sangue, separa e rinserra
quasi in famiglia sua ciascun estinto.
Armi ed attrezzi logori da guerra
volle disposti a gloria dei sepolti
l’affetto pio, l’intento che non erra.
Resti e rottami vedi qui raccolti
lungo le tombe, a nobile ornamento
con industrie pensier d’arte rivolti.
E appaion sacri come un monumento
la gamella il bidone la marmitta
comune ordigno ed umile strumento;
formano croce tra le pietre infitta
canne lame fucili aste spezzate,
simboli muti di costanza invitta;
fronde d’acciaio e siepi aggrovigliate
di ferree spine sorgono dal suolo
tra cespugli di bossoli e granate;
vedi un obice lì scheggiato e solo,
un timone che in mar lottò col vento,
un’elica che in aria ha retto il volo.
Stennio fu qui deposto. Nel cimento
scheggia mortale suo valor non prostra,
“A noi, fanti del quinto reggimento;
su, per l’onore dell’antica mostra,
avanti sempre!” e grida anche morendo:
“Viva l’Italia! la vittoria e nostra”.
Mentre per nuova via pensoso scendo,
in una pietra che mi ferma il piede
al nome di Merelli il guardo tendo.
Lieto perdè la vita e non la fede,
irradiando valor mentre il plotone
sloggia il nemico da munita sede.
Abbattuti ambedue nella tenzone
stan due fratelli; di pietà compreso
Pellas leggo due volte in un girone.
Cadde il secondo a la vendetta inteso
del primo ucciso; attonito il nemico
al sublime valor gli onori ha reso.
In cor non senti più di quel ch’io dico
tu che vedi mutar per lunga via
in arca di reliquie il colle aprico?
Tutte non può ridir, ma non oblia,
l’inclite gesta di virtù fulgente
fra tanta luce la parola mia.
Pur voi richiamerò, di cui presente
m’è la baldanza giovanile, impressa
nella sembianza grata e sorridente.
Nati d’un parto, in una culla stessa
vi contemplava il dolce occhio materno
e traea d’ambedue lieta promessa,
gemelli Ceas. Lo stesso amor fraterno
or vi congiunge nel comun ricetto,
nel sacrificio e nell’onore eterno.
S’accompagna con voi, suora d’affetto
sin dalla prima età, pur lei caduta
come sotto la falce un giglio eletto
Margherita Parodi. Adesso muta,
già pietosa sul campo e a correr presta
dove ansia di conforto era più acuta.
Roma ai suoi figli una corona appresta
tessuta dei suoi lauri e ai nomi cari
quel di Riccardo Bennicelli innesta.
Va Grifèo di Partanna tra i più chiari
e un trittico di tre fratelli uccisi
offrono i De Bernardi ai patri altari.
Né potean nella tomba andar divisi
il padre e il figlio, i due Riva che accenti
teneri ancor si scambiano e sorrisi.
Come cacciati dal furor dei venti
mugghiando il mare per fiera tempesta
i flutti accavallati urtan frementi
la rupe immota e arretrano da questa
spezzati e risospinti e nuove ondate
a nuovi incalzi arricciano la cresta;
così rotte dal foco e decimate
alacri sempre a ripetuti assalti
mosser su le cadute altre brigate.
E largo corse il sangue sui rialti
dell’Hermada ferrigna, pei dirupi
del san Michele, nei contesi spalti
di Monfalcone e ovunque orride rupi
non fur barriera al piè dei fanti arditi
che dal nemico il nome ebber di lupi.
La gran torma non lascia che s’additi
ognun che ha requie dentro il luogo santo
né ch’ogni tomba ad onoranza inviti.
A quanti il turbin della mischia il vanto
rapì del nome e al tumulo contese
della madre o dei figli i fiori e il pianto!
Ma perché riandar nomi ed imprese?
Di morir per la patria ebbero gloria,
non è mestieri ch’altro sia palese.
Su queste fosse è scritto da la storia
EROI d’ITALIA. Da la spoglia forte
la messe germogliò della vittoria.
“Nella vittoria scomparì la morte”.
Giulio Navone
(Nel II° anniversario della consacrazione)
Absorpta est mors in victoria.
S. Paolo ai Cor. XV, 54
E’ questo il colle. L’ascendiam devoti
curva la fronte e riverente il core.
Qui conosciuti eroi, martiri ignoti
La semenza gentil del patrio amore
nutron sotterra, e il culto dei viventi
ne svolge il germe e ne sprigiona il fiore.
Non grige tombe, ma fari lucenti
che irradieranno il lume della fede
nel ciel d’Italia a le future genti;
non sepolcreto, ma superba sede
dove si prostrerà come in un tempio
chi d’eletta virtù vuol farsi erede.
Alto qui parla il rinnovato esempio
d’antichi padri; qui tragga le sorti
chi mai d’Italia mediti lo scempio.
Manderanno in quel dì l’urne dei forti
vampe guizzanti d’ira e di vendetta
e nuovamente pugneranno i morti.
Non osi d’appressare a questa vetta
chiunque in petto la viltà nasconde
com’uom che a nocer luogo e tempo aspetta.
Come dal sole tenebre profonde,
rotti andranno a chi nega e patria e Dio
i propositi rei le voglie immonde.
Chi vuole appresso a me muovere in pio
pellegrinaggio per il colle sacro?
sia memore il pensier; guida son io.
Tutti guarda dall’alto il simulacro
di Lui che il corpo su la croce offerse
e del sangue divin fece lavacro.
Tutti volgono a Lui per vie diverse
i martiri del bene; è suo seguace
chi generoso per altrui sofferse:
ed Ei l’accoglie nell’eterna pace.
su la fossa ove alfin prendi riposo
siede con l’ali aperte aquila audace,
generale Chinotto. Il valoroso
animo effigia, pertinace aita
al corpo da crudel morbo corroso,
quando la gente tua facevi ardita
nelle trincee d’Isonzo e Monfalcone
e sentivi da te fuggir la vita.
E tu per ogni rupe ogni burrone,
mentre cupa incombeva la minaccia
sul Carso lacerato dal cannone,
fiero avanzasti del nemico in faccia,
generale Paolini, e diffondesti
da quattro piaghe una vermiglia traccia.
Giù digradando girano da questi
vertici i molti cerchi ond’è recinto
ogni lembo di terra che calpesti.
Sottil ferro talora in rosso tinto,
ruggine e sangue, separa e rinserra
quasi in famiglia sua ciascun estinto.
Armi ed attrezzi logori da guerra
volle disposti a gloria dei sepolti
l’affetto pio, l’intento che non erra.
Resti e rottami vedi qui raccolti
lungo le tombe, a nobile ornamento
con industrie pensier d’arte rivolti.
E appaion sacri come un monumento
la gamella il bidone la marmitta
comune ordigno ed umile strumento;
formano croce tra le pietre infitta
canne lame fucili aste spezzate,
simboli muti di costanza invitta;
fronde d’acciaio e siepi aggrovigliate
di ferree spine sorgono dal suolo
tra cespugli di bossoli e granate;
vedi un obice lì scheggiato e solo,
un timone che in mar lottò col vento,
un’elica che in aria ha retto il volo.
Stennio fu qui deposto. Nel cimento
scheggia mortale suo valor non prostra,
“A noi, fanti del quinto reggimento;
su, per l’onore dell’antica mostra,
avanti sempre!” e grida anche morendo:
“Viva l’Italia! la vittoria e nostra”.
Mentre per nuova via pensoso scendo,
in una pietra che mi ferma il piede
al nome di Merelli il guardo tendo.
Lieto perdè la vita e non la fede,
irradiando valor mentre il plotone
sloggia il nemico da munita sede.
Abbattuti ambedue nella tenzone
stan due fratelli; di pietà compreso
Pellas leggo due volte in un girone.
Cadde il secondo a la vendetta inteso
del primo ucciso; attonito il nemico
al sublime valor gli onori ha reso.
In cor non senti più di quel ch’io dico
tu che vedi mutar per lunga via
in arca di reliquie il colle aprico?
Tutte non può ridir, ma non oblia,
l’inclite gesta di virtù fulgente
fra tanta luce la parola mia.
Pur voi richiamerò, di cui presente
m’è la baldanza giovanile, impressa
nella sembianza grata e sorridente.
Nati d’un parto, in una culla stessa
vi contemplava il dolce occhio materno
e traea d’ambedue lieta promessa,
gemelli Ceas. Lo stesso amor fraterno
or vi congiunge nel comun ricetto,
nel sacrificio e nell’onore eterno.
S’accompagna con voi, suora d’affetto
sin dalla prima età, pur lei caduta
come sotto la falce un giglio eletto
Margherita Parodi. Adesso muta,
già pietosa sul campo e a correr presta
dove ansia di conforto era più acuta.
Roma ai suoi figli una corona appresta
tessuta dei suoi lauri e ai nomi cari
quel di Riccardo Bennicelli innesta.
Va Grifèo di Partanna tra i più chiari
e un trittico di tre fratelli uccisi
offrono i De Bernardi ai patri altari.
Né potean nella tomba andar divisi
il padre e il figlio, i due Riva che accenti
teneri ancor si scambiano e sorrisi.
Come cacciati dal furor dei venti
mugghiando il mare per fiera tempesta
i flutti accavallati urtan frementi
la rupe immota e arretrano da questa
spezzati e risospinti e nuove ondate
a nuovi incalzi arricciano la cresta;
così rotte dal foco e decimate
alacri sempre a ripetuti assalti
mosser su le cadute altre brigate.
E largo corse il sangue sui rialti
dell’Hermada ferrigna, pei dirupi
del san Michele, nei contesi spalti
di Monfalcone e ovunque orride rupi
non fur barriera al piè dei fanti arditi
che dal nemico il nome ebber di lupi.
La gran torma non lascia che s’additi
ognun che ha requie dentro il luogo santo
né ch’ogni tomba ad onoranza inviti.
A quanti il turbin della mischia il vanto
rapì del nome e al tumulo contese
della madre o dei figli i fiori e il pianto!
Ma perché riandar nomi ed imprese?
Di morir per la patria ebbero gloria,
non è mestieri ch’altro sia palese.
Su queste fosse è scritto da la storia
EROI d’ITALIA. Da la spoglia forte
la messe germogliò della vittoria.
“Nella vittoria scomparì la morte”.
Giulio Navone
ringrazio Fedeica Delunardo